Per una Chiesa Scalza

PER UNA CHIESA SCALZA

E' il titolo dell'ultimo libro di Ernesto Olivero (Sermig di TO). Questo nuovo libro di Ernesto Olivero è un atto di amore verso la Chiesa, è il grido ferito di un innamorato che vuol togliere ogni ruga dal volto della sua Sposa, è una appassionata proposta di ritornare al Vangelo puro, al «Vangelo sine glossa», come amava dire Francesco d’Assisi.

"Questo libro nasce dal desiderio di uscire dal buio, perché la luce esiste. È il racconto della mia vita, - racconta l'autore - di molti episodi che mi hanno segnato, ma mai spezzato, mi hanno fatto toccare il cielo con un dito, ma non mi hanno mai fatto perdere tra le nuvole." Ecco un estratto.

Sergio è un ingegnere in pensione. È uno delle migliaia di volontari passati dal Sermig. Dirigente di aziende importanti in Italia e all’estero, Sergio è arrivato nella nostra casa qualche anno fa. Una cosa che mi colpì subito di quell’uomo, fu la sua apparente rudezza. Sembrava un burbero, ma aveva due occhi che parlavano al suo posto. Uno sguardo onesto, che non si abbassa mai, ti guarda e si lascia guardare. Sergio è un rompiscatole, un po’ polemico, o almeno così vuole mostrarsi. Quando l’ho conosciuto, rimasi colpito dalla sua costanza. Continuava a venire all’Arsenale, dando sempre la sua disponibilità. Non è facile da noi, perché gli Arsenali non hanno orari, ti spiazzano. L’imprevisto accolto è la nostra regola non regola. Mi colpiva quel vecchio capo, abituato a comandare, un po’ scontroso, per certi aspetti un pesce fuor d’acqua: non aveva problemi a mettersi il grembiule, a servire, a pulire i gabinetti se necessario. Sergio resisteva.

Un giorno chiese di incontrarmi. Lo aspettavo al varco. Non dimentico quell’incontro. Sergio entrò nella mia stanza con la faccia di chi ha le idee chiare. Mi fissò, io lo squadrai e riconobbi lo sguardo onesto che già conoscevo. Non era cambiato. « Ernesto, sappi che io i tuoi libri non li leggo », mi disse secco. « Hai perso un’occasione », risposi ridendo. « Io leggo solo le inchieste sul cristianesimo in linea con la mia rabbia ». « Trovi delle risposte? ». « No, mi fanno arrabbiare ancora di più ». « E allora sono inutili ». Silenzio.

Sergio abbassa la testa, poi la rialza e comincia a vomitarmi addosso tutta la sua amarezza verso la Chiesa: l’ipocrisia, i cattivi esempi, la smania di potere, l’ingordigia, il giudizio e la predica sempre pronta. Un repertorio già sentito. Avrei potuto liquidare tutto come le solite polemiche superficiali e i soliti pregiudizi. Ma nello sguardo azzurro di Sergio vidi che quelle parole nascevano dalla sofferenza, dalla vita. Non erano gratuite: erano il frutto della sua esperienza.

L’incontro con Sergio mi ha fatto pensare. Come fa la Chiesa a non attrarre uno così, un uomo buono, un ingegnere in pensione che invece di fare il consulente o gestirsi il tempo come gli pare, decide di farsi in quattro per gli altri? Come può allontanare una Chiesa che ha parole di vita eterna, è custode delle beatitudini e prega ogni giorno il Padre Nostro? Una Chiesa convinta che la parola amore non sia un sorriso, ma dare da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, visitare i carcerati, fasciare gli ammalati? Una Chiesa che dice che chi vuole essere primo deve diventare servo di tutti? La Chiesa di Gesù, il quale dice che tutto passerà, ma non le sue parole? Non riesco a capire come una Chiesa così non riesca ad affascinare l’uomo di oggi.

La realtà è durissima. Un certo tipo di Chiesa è finita, è morta. Sembra impossibile, ma questa Chiesa non cerca più la pecorella smarrita e, spesso, fa di tutto per perderla. Addirittura, in certe situazioni, non c’è più nemmeno una pecorella da cercare. Ce ne sono novantanove! Questa Chiesa non riesce ad avvicinare i giovani. Non li cerca, non li aiuta a gustare la preghiera e il silenzio. Un paradosso per una Chiesa che ha avuto mille e mille martiri, persone disposte a morire per testimoniare l’amore di Dio. Una Chiesa che ha visto mille e mille missionari andare in posti infami e morire per Cristo con il sorriso sulle labbra o prendersi malattie rarissime accettando il dolore. Una Chiesa che ha avuto tra i suoi esempi mille e mille uomini di Dio seppelliti vivi nelle carceri per consolare, preti e suore impegnati negli ospedali per fasciare chi è malato, fior di professionisti che hanno lasciato tutto per servire i più poveri. Una Chiesa che dona a piene mani il tesoro di essere perdonati una, dieci, mille, infinite volte. Una Chiesa che ha un Dio che non vuole sottomettere l’uomo, ma gli permette di fare cose più grandi di Lui. Insomma, una Chiesa che è riflesso di un amore sconfinato.

Ho molta simpatia per un vescovo che tempo fa rimase colpito da malumori sulla Chiesa della sua città. Decise di informarsi e seppe che quelle voci erano giustificate: un prete della sua diocesi aveva compiuto una grave malefatta. Quel vescovo non si nascose dietro un dito, prese carta e penna e scrisse una lettera alla città: « Io vescovo… chiedo perdono. Sono pronto a pagare di persona ».

Una volta don Franco, un sacerdote che stimo, raccontò un episodio. Una sera tardi a Torino, nella chiesa di San Lorenzo ormai chiusa, trovò il sacrestano inginocchiato a pregare, pensieroso. « Cosa fai Giovanni? Ti vedo triste. Qualcosa non va? Siamo amici, dimmi ». Giovanni faceva fatica a parlare, ma si fece coraggio: « Giorni fa, un sacerdote mi ha calunniato alla presenza di tante persone. Un’accusa tremenda ». Don Franco lo fissò negli occhi: « E tu, Giovanni, cosa fai? ». La risposta: « Alla sera, quando tutti andate a dormire, quando la chiesa è chiusa, faccio un’ora di adorazione per quel prete ». Più tardi, ho scoperto casualmente che anche questo sacerdote si era unito all’adorazione con il suo sacrestano.

Finché ci saranno un sacrestano, un vescovo, una donna, un uomo, un ragazzo capaci di perdonare un’offesa, di chiedere perdono e di pregare per chi ha fatto del male, ci sarà la Chiesa, perché ci sarà Gesù Figlio di Dio e questa Chiesa, il piccolo gregge di cui parla il Vangelo, sarà la chiave del Regno di Dio in mezzo a noi.

Una Chiesa così dovrebbe fare innamorare tutti e, solo ad essere nominata, dovrebbe suscitare rispetto, entusiasmo, gioia. Sappiamo, invece, come vanno le cose. Ma di chi è la responsabilità? È Gesù ad essere falso? È forse un mito? No, io Gesù l’ho visto faccia a faccia. Ho fatto esperienza della sua presenza. L’ho ascoltato nella mia coscienza. Continuamente. E le persone migliori nella politica, nel lavoro, nella scienza, nella spiritualità le ho incontrate tra chi crede in Lui. Gesù è il centro, il fine di ogni vita, di tutta la creazione. Il fine dell’umanità è la sua santificazione. Una Chiesa realmente capace di comunicare, perché davvero credibile, in pochi anni convertirebbe il mondo, riacquisterebbe tutti i luoghi di culto trasformati in musei o attività commerciali e ne costruirebbe mille e mille altri ancora. Sarebbe una Chiesa di cui tutti direbbero: « Quella è casa mia, là c’è una Parola di vita eterna, là mi ascoltano, là c’è sincerità, là ho trovato il senso della mia vita ». Una Chiesa così diventerebbe la casa anche per i credenti delle altre religioni e per chi non ha fede: nessuno rifiuterebbe delle porte sempre aperte. La stessa simpatia nascerebbe dall’incontro con un cristiano.

Oggi, invece, la gente cosa dice dei cristiani? « Sono ipocriti peggio degli altri. Almeno gli altri non usano il nome di Dio per farsi gli affari propri. Qualche volta se ne incontra uno buono, ma è solo un’eccezione, perché la regola è un’altra ». Gesù non può essere un’eccezione. È l’invito perché l’amore diventi la regola. Certo, essere cristiani non è facile. Del resto, come si fa ad essere puri totalmente, miti totalmente, disponibili totalmente? La strada è tutta in salita, è esigente, alle volte sembra impossibile, ancora di più vivendo immersi nel mondo: ma bisogna percorrerla. Un conto è prendere atto di quanto sia difficile essere perfetti, altra cosa è pretendere questa perfezione solo dagli altri. Se si desidera essere perfetti, bisogna camminare nella verità, con i propri limiti, i propri errori, offrirli alla grazia perché li trasformi e li renda ad ogni modo comunicazione d’amore e di energia.

Ecco perché questo tipo di Chiesa è finita: una crisi nata non solo dall’alto, ma dal basso, da ciascuno di noi, da ogni uomo o donna che dice di essere cristiano senza impegnarsi ad esserlo. Non è indicando il buio che si espande la luce, non è puntando il dito che si espande l’amore. Non tutto va demolito se si vuole riparare una costruzione un po’ avanti negli anni. Il cardinal Angelo Comastri mi ha scritto: « Caro Ernesto, ogni volta che ami la Chiesa, ami lacarne del tuo stesso corpo: siamo Chiesa! Allarga tra i giovani lo sguardo sulla santità e tutta la Chiesa sarà più santa ». La via d’uscita è una sola: la conversione. Perché a forza di non credere in quello che gli occhi hanno visto e i cuori hanno provato, abbiamo svuotato la fede del suo contenuto. Convertirci ora, senza cercare lontano ciò che è vicino. Allora noi cristiani torneremo a far innamorare della Chiesa, torneremo a suscitare rispetto, simpatia non per la grandiosità, ma per la semplicità, non per la forza, ma per la credibilità.

Non voglio giudicare nessuno, ma solo far circolare l’amore, aumentare il tasso d’amore. Credo che dobbiamo avere il coraggio di dire con umiltà e severità che un treno può andare avanti solo se ha due binari. In questo caso, la verità e la santità. Non dobbiamo avere paura delle nostre miserie. Lo ha detto anche il cardinal Joseph Ratzinger prima di diventare papa: « Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! » (Via Crucis, 2005). Tuttavia, la debolezza, riconosciuta e non mascherata di perbenismo, può far emergere l’opera di Dio che è in ognuno di noi, l’opera che Lui ha affidato a Pietro: un caratteraccio, uno sbruffone pauroso che la fede ha trasformato in coraggioso martire, un laico sposato e con figli. La Chiesa e i cristiani mostrano il loro volto più vero non quando trionfano o camminano sulle acque, ma quando la paura li prende e, nella tempesta, sanno dire con semplicità il loro « Gesù, salvami! ».

Leggendo alcune pagine di questo libro, il mio amico Erri De Luca ha annotato un pensiero: « Leggo qualche pagina appassionata contro la Chiesa degli addobbati in cerimonia, sono pagine per una Chiesa scalza ». Per una Chiesa scalza: è diventato il titolo che ho scelto per questo libro, nato nel corso di dieci anni, dalla mia vita, dal confronto con tante persone, storie, drammi. Ho raccolto esperienze segnate dalla conversione. La conversione che passa dalla fiducia in Dio, dall’abbandono, dal coraggio di dire dei sì e dei no, dal riconoscere i propri limiti e i propri errori, dalla disponibilità a cambiare ogni giorno. La luce annulla le tenebre, ma bisogna avere il coraggio di dare un nome al buio che scandalizza e allontana dalla Chiesa di Gesù tante persone buone. Una Chiesa che in passato non sempre è riuscita a ravvedersi, a convertirsi, a chiedere perdono. Ogni cristiano deve sapere che luce e buio non stanno insieme. O diventano solo luce, o solo buio. Buio come la frustrazione, incompatibile con l’amore, incompatibile con la misericordia, incompatibile con la grazia. Nel campo di Dio, mille sono le cose da fare, mille i modi di amare, mille i sì da dire, ma solo un sì è vero, quello pronto a tutto, a tutti. Lo abbiamo sperimentato in prima persona. Quante storie di resurrezione abbiamo incontrato! Ma non ci siamo mai montati la testa. Il Sermig è fatto semplicemente di persone che si vogliono convertire, persone che conoscono la durezza della vita e che possono dire a chi avvicinano: « Ce l’ho fatta io, puoi farcela anche tu ». È questa la speranza che vorrei comunicare. Il mio non è un atto di arroganza, ma l’esplosione d’amore di un cuore che ama la Chiesa e la ama con tutte le sue forze.