Le prove
LE PROVE
In un'antica storia scritta nel Talmud, il grande commentario ebraico delle Scritture sacre, si legge di quattro sapienti che vanno a far visita a rabbi Eliezer, ammalato. I primi tre gli rendono omaggio pronunciando lodi: gli dicono che è prezioso ai loro occhi più della pioggia, più del sole, più dei genitori. Il quarto, il cui nome è Akivà, gli dice solamente: "Care devono essere a noi le nostre prove". Rabbi Eliezer chiede spiegazioni di quello strano omaggio e Akivà riassume la storia di Manasse, re del regno di Giuda.
Quei sapienti ebrei la conoscevano bene, così il giovane discepolo poté arrivare velocemente alle sue conclusioni. Prima di annunciarle, a noi conviene ricordare brevemente quella vicenda. Durante il suo regno Manasse fece le cose più orribili, sparse sangue innocente, portò l'idolatria fin dentro il tempio di Gerusalemme. Eppure era figlio di Ezechia, un re devoto che difese la religione dei padri e fu paragonato al re David. Dio si volse contro Manasse. Nel Libro dei Re si legge un duro avvertimento contro la città governata dall'empio successore di Ezechia: "E raschierò Gerusalemme come si raschierà la pentola". Manasse viene fatto prigioniero dagli assiri e portato a Babilonia in catene. Durante il duro periodo di carcere si pentì, chiese perdono a Dio e fu ascoltato. Venne ristabilito sul trono di Gerusalemme e da allora in poi si dedicò a restaurare il culto di Dio. Il suo regno fu premiato da un'eccezionale durata: cinquantacinque anni.
Akivà giunge alle sue conclusioni e così spiega il suo strano augurio a rabbi Eliézer: "È possibile che Ezechia re di Giuda abbia insegnato la Legge al mondo intero e non l'abbia insegnata a suo figlio Manasse? No. Malgrado tutti i suoi sforzi, malgrado tutta la pena che si è dato, non è riuscito a rendere migliore suo figlio. Solo le prove ci sono riuscite. Questo non ti dimostra che le prove ci devono essere care?".
Con queste parole Akivà consola il maestro ammalato ricordandogli l'esperienza dolorosa di Manasse. Ma insegna qualcosa anche a chi sia lontano da quel capezzale: le prove, le più dure e incomprensibili alle quali si è tutti sottoposti, devono trovare accoglienza in chi le subisce. Non basta avere la pazienza di sopportarle, ma ci devono anche essere care. Perché esse sanno insegnare meglio di un padre. Ezechia fallì con suo figlio, ma le prove della prigionia e dell'esilio dettero un grande risultato su Manasse. La seconda salita sul trono fu più importante della prima, ottenuta senza sforzo, per puro diritto ereditario. La seconda volta è più grande della prima. È così anche nella vita dei giorni: qualcosa venuta facilmente, sfugge di mano e solo la dura fatica di riottenerla le restituisce valore. Manasse conobbe il trono una seconda volta sotto la luce nuova della restituzione e restò poi fedele a quel ritorno. In lingua ebraica pentimento, teshuvà, è "ritorno".
Ma anche lui, come già suo padre, non ebbe successo con suo figlio Amon che diventò re e ricalcò gli errori di gioventù di Manasse. Si dette all'idolatria ed ebbe vita breve: dopo due anni di, regno fu ucciso durante una congiura. Dopo di lui fu re suo figlio Giosia che invece visse seguendo fedelmente la legge di Dio.
Le vicende di questa monarchia mostrano che i padri non riescono a correggere i figli ribelli, ma pure che genitori scellerati non sempre guastano dei figli buoni. Gli esseri umani non riescono a determinare l'avvenire, a condizionarlo nel bene o nel male, nemmeno a casa propria. Manasse in ebraico è Menashè, un nome proprio che ha anche un significato: "Colui che fa dimenticare". Lui fece dimenticare al popolo il culto di Dio, ma ogni figlio ha in sé un pezzo di questo nome rischioso e può far dimenticare il padre, nel bene come nel male. Ogni nuovo nato del mondo ha un pezzo di menashè.
I maestri del Talmud ribaltano addirittura il rapporto tra padre e figlio, commentando un passo delle Scritture relativo ad Abramo e a suo padre Tèrah. Essi dicono che il figlio trasmette i suoi meriti al padre, ma il padre non trasmette i suoi meriti al figlio. A sigla di questo pensiero profondo lasciano scritta una piccola frase d'esempio, una parabola telegrafica: "E’ il frutto che protegge l'albero".
tratto da "Ora prima" di E.De Luca