Parole senza forza

PAROLE SENZA FORZA

ARTICOLO DI O. Poli

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Parole senza forza

Se i rimproveri e le richieste educative del genitore sono ragionevoli, perché non sono ascoltate dai figli? All’inevitabile complessità della risposta non può mancare una considerazione che riguardi il genitore stesso. Spesso, infatti, nelle sue parole non c’è quella speciale forza che le rende credibili. Le sue richieste educative sono espresse senza la necessaria convinzione. È come se al genitore mancasse la giusta determinazione: mentre chiede al figlio di fare ciò che ritiene giusto, dubita al contempo che le sue richieste siano veramente opportune. Per questa ragione le sue parole non possono essere forti, solide e resistenti, ma assumono piuttosto il tono “debole” tipico di chi esige e nello stesso tempo implicitamente si scusa, di chi tratta il figlio con i guanti di velluto perché “non vuole rovinare il rapporto” di chi sembra chiedere al figlio: “dimmi che non sbaglio se ti faccio questa richiesta”, “dimmi che ti vado bene anche se non ti accontento”, “assicurami che non pretendo troppo se esigo che tu ti impegni maggiormente…” Con simili atteggiamenti il genitore lascia trasparire il suo dubbio segreto: sarà giusto o sbagliato ciò che sto facendo ? La sua divisione interiore non gli permette di essere completamente “dentro” le sue parole. Non crede fino in fondo a ciò che dice. Se richieste non corrispondono interamente a ciò che un genitore realmente pensa e prova, sono espresse con scarsa determinazione e sicurezza e di conseguenza, non sono tenute nella giusta considerazione. Più per come sono dette, che per le indicazioni che offrono. I figli, infatti “leggono” l’inconscio del genitore e considerano maggiormente le istruzioni che si intravedono dal “come le cose sono dette“.

Ciò permette loro di intuire le contraddizioni e le debolezze emotive del genitore di giocarci dentro. Se il genitore si ritrova sistematicamente “ con le mani legate” dal timore di ciò che il figlio potrebbe pensare e da come potrebbe reagire, diventa dipendente dalla sua approvazione piuttosto che da ciò che ritiene giusto fare per il suo bene. Una condizione che non tarderà a rivelarsi nella sua vera natura: una sorta di assoggettamento psicologico del genitore che, per paura di scontentare il figlio o di rovinare il rapporto con lui , tradisce i propri principi, rinunciando ad esercitare il ruolo di guida che gli compete e da cui non può esimersi. In questi casi il rapporto educativo potrà essere definito “ buono “ nel senso limitativo di esente da conflitti, perché le difficoltà della relazione educativa sono accuratamente evitate. Non sempre il rapporto senza contrasti è realmente utile alla crescita dei figli.

Il ritorno del buon senso

Il genitore mancante di fermezza è vittima di paure e preoccupazioni che oscurano il suo buon senso e la sua intuizione di ciò che è giusto ed opportuno fare. Le difficoltà iniziano quando la voce dell’intuizione “non parla più” perché soffocata da paure che, come dei parassiti, tolgono forza e vigore alla piccola pianta della sua sicurezza psicologica.

I comportamenti genitoriali descritti come mancanti di fermezza sono originati da atteggiamenti di rifiuto di quelle valutazioni spontanee e dotate di un’evidenza propria, definibili come “buon senso”. Sempre più spesso i genitori diffidano sistematicamente di potersene servire in campo educativo.

Tendono in questo modo a non rispettare la loro intuizione circa la natura e le motivazioni dei comportamenti dei figli e a rifiutare ciò che la loro esperienza di vita gli indicherebbe come giusto ed opportuno dal punto di vista educativo.

Molto spesso il genitore esercita una sottile violenza verso di sé, mettendo a tacere quel suo “conoscere la vita” che in molte circostanze gli suggerirebbe di pensare:

- non posso credergli: si sta nascondendo dietro scuse e pretesti

- mi sta prendendo in giro

- sta facendo dei capricci

- sta approfittando della mia disponibilità

- mi sta imponendo una cosa che non credo giusta

- mi sta facendo sentire in colpa perché non faccio ciò che egli vorrebbe

- non è disponibile a capire, è perfettamente inutile che gli spieghi nuovamente le mie buone ragioni.

Molti genitori si mostrano stranamente ingenui nei confronti dei figli, come se qualcosa li inducesse a non dare credito a modalità più semplici, intuitive e realistiche di comprendere i loro comportamenti. Come se un virus segreto impedisse loro di “pensar male dei figli”, e di dubitare della loro integrità psicologica e morale. Alcuni genitori ammettono di avvertire in sé gli effetti del programma: “Non voglio credere che mio figlio sia così”, simile all’altrettanto diffuso programma “Me ne rendo conto, ma non voglio ammetterlo!”. Questi blocchi di protezione riguardano unicamente il file Figli; mentre per il resto del mondo si mostrano ben smaliziati e non cadrebbero mai in letture ingenue delle vere intenzioni dell’altro. In questo modo il genitore soffoca e reprime una parte di sé, rappresentata dalla voce dell’intuizione che andrebbe accolta e lasciata “dire” con maggior libertà. Spesso il modo giusto di educare i figli sorge spontaneamente da dentro e istruisce il genitore con semplicità, intelligenza e realismo. Molte situazioni si risolvono quando il genitore trova il coraggio di dire a se stesso “cosa pensa sinceramente della situazione” ed agire di conseguenza. Al termine di un percorso consulenziale con un esperto, non di rado il genitore commenta: “ La situazione era ancora come avevo pensato sin dall’inizio”, “ In fondo ho sempre saputo che avrei dovuto agire in questo modo”, “Sapevo fin dall’inizio che la situazione era questa: avevo bisogno di sentirmelo dire”, “Le cose che lei mi dice, dentro di me le ho sempre sapute”…

Diventare genitori fermi non significa compiere un ridicolo sforzo di “fare i duri con i figli”, ma avere il coraggio di essere se stessi, dando credito a ciò che interiormente si impone, dopo opportuna valutazione con i dati di realtà, come vero e prendere posizione evitando di restare cronicamente sospesi fra i “ma” i “se” e gli altri mille avverbi dell’irresolutezza. Le comprensioni “ingenue” del comportamento dei figli sono spesso più sagge dei ragionamenti che in realtà tendono a negare l’intelligenza delle reazioni emotive più elementari.Può esserci maggiore saggezza nel sentimento che fa sbottare il genitore nel classico “ mi sono stufato ” che nei mille ragionamenti con cui la sua istintiva reazione di insofferenza verso alcuni comportamenti del figlio sono stemperati fino a scomparire o ad essere giudicati illegittimi. C’è maggiore intuito educativo nella sensazione di insopportabilità nei confronti di un figlio “che non fa niente in casa e pretende di essere servito”, che nelle mille paure che assalgono il genitore di fronte alla evidente necessità di chiedergli di spegnere la tv e aiutare nelle pulizie di casa.

Uno sciame di paure, dubbi, timori poco realistici assalgono la sicurezza con cui il genitore istintivamente porrebbe le sue richieste; la devitalizzano togliendole dall’interno l’intima forza derivante dalla serena consapevolezza di agire “ per senso di giustizia ” e non per cattiveria o impulsività. Il genitore è spesso deprivato dell’aspetto “istintivo” delle sue reazioni, che molti manuali insegnano a trattare con sistematico sospetto, a favore di altri “metodi” che dovrebbero renderlo più competente ed adeguato: un genitore efficace, come si sente ripetere con un’aggettivazione dal fascino ambiguo. Simili presupposti inducono insensibilmente a sopravvalutare il “modo di dire le cose” rispetto alle “cose da dire” generando un clima un po’ artificioso ed innaturale di relazione con i figli che si vorrebbe rispettosa e democratica mentre è solo debole. Fare del rapporto con i figli una questione di raffinatezza nel “modo di dialogare ” con loro è tradire la sostanza della relazione educativa, che non può prescindere dal presupposto che esista una verità da dire e da cercare insieme.

Il genitore educa a partire dalle sue più personali convinzioni e non padroneggiando una tecnica che possa appianare tutte le divergenze, e risolvere i problemi. Tecnicizzare la relazione educativa, come molte proposte formative oggi sembrano suggerire, priva il genitore del fondamento della sua sicurezza (la valutazione interiore di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato) e lo inducono alla dipendenza dai “tecnici” de

lla psicologia, ritrovandosi sempre più incerto, confuso, spesso ridotto a seguace stucchevole di qualche teoria d’importazione che promette di “avere successo con i figli”. Le considerazioni qui sviluppate intendono aiutare il genitore a recuperare la sua capacità di “parlare dal centro di se stesso”, ad “esprimere ciò che sinceramente pensa ”, a “non nascondersi” al figlio sottraendo al suo sguardo i propri giudizi di valore. Non è possibile mostrarsi ai figli sistematicamente “neutri”, padroni di una tecnica e non di un “sapere del bene e del male” che è indispensabile alla vita, se non ricorrendo ad una “finzione” artificiosa ed innaturale. Né l’effettiva possibilità di compiere degli errori di valutazione può giustificare il negare a se stessi il diritto di “vedere le cose in un certo modo”. Tale diritto non contempla l’obbligo di esprimere giudizi ad ogni piè sospinto, né impone di comportarsi in modo presuntuoso ed autoritario con i figli con i figli. La capacità di “sospendere” il proprio punto di vista, la giusta tensione a ricercare l’obiettività del giudizio, il sincero tentativo di capire il punto di vista dei figli , l’attenzione ad intuire il momento opportuno per esprimere la proprie valutazioni è essenziale nella relazione educativa come in ogni altro tipo di rapporto.

Tale lettura valutativa della realtà che lascia intravedere le convinzioni del genitore, non può essere repressa come sconveniente, senza evitare che le sue parole diventino deboli e devitalizzate, prive di quella forza e di quella risolutezza che permette di sentirsi sicuri e aperti, interamente se stessi e rispettosi del figlio allo stesso tempo. Se il genitore è indotto a prescindere o a diffidare sistematicamente della valutazione istintiva di ciò che è giusto o sbagliato (nel senso di immediata percezione del pericolo che alcuni atteggiamenti del figlio comportano) invece che approdare ad una maggiore fermezza diviene vittima di irreparabili insicurezze nello stile educativo.

dott. Osvaldo Poli