s.o.s. bottiglia

S.O.S IN BOTTIGLIA

Mai così tanti ragazzi e ragazze a rischio alcol in Italia, dove si sta diffondendo il fenomeno del «binge drinking», bere per ubriacarsi, mettendo a repentaglio la salute propria e quella altrui.

di Alberto Friso

Venerdì sera a Campo de’ Fiori, Roma. Angelo, 14 anni, è in compagnia di Chicco e Vale. In mano uno shottino a testa, tanto per iniziare la notte col piede giusto, tutto d’un sorso. Lo shottino è un mini drink, un bicchierino di superalcolico o un cocktail, il primo di una lunga serie di shots – dall’inglese, spari – che ritmeranno la serata fino allo stordimento. Ecco appunto: uno sparo e via. Allegria chimica subito al cervello (e al fegato), come se, «bevuti», Angelo, Chicco e Vale diventassero migliori di quando sono sobri. La scena potrebbe essere girata anche a Padova, in piazza delle Erbe, con gli spritz; a Milano, lungo i Navigli o in piazza Sempione, per gli happy hour; a Torino, in piazza Vittorio; a Firenze, zona Santa Maria Novella, e così via, in tante altre piazze e centri storici italiani, in tanti locali, lounge bar e discoteche. L’età non fa differenza: preadolescenti, adolescenti, ex adolescenti o fantomatici «adolescenti dentro», con bicchiere o bottiglia tra mano e bocca, non si contano. In piazza noti quelli che nell’altra mano hanno il casco per lo scooter o la moto, e – con un brivido – te li immagini più tardi sulla strada. Le chiavi della macchina, invece, quelle non le vedi, ma non mancano. Intanto in piazza continua ad affluire gente, a coppie, o in gruppetti. Non tutti bevono, non tutti bevono troppo, ma molti sì. Quanti sono in Italia? Mai così tanti. Lo dice qualsiasi statistica sull’argomento, pur con alcuni distinguo. Gli ultimi dati, in attesa della prossima relazione parlamentare sull’alcolismo, che dovrebbe essere imminente, sono di aprile 2009, a cura dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di sanità. Gli 11-24enni italiani a rischio alcol sono un milione e 500 mila. Restringendo il campo ai minorenni, si parla di un consumo di alcol dannoso per il 22,4 per cento dei ragazzi e il 13 per cento delle ragazze. Tra i 19-24enni, invece, il dato sale per i maschi (uno su quattro a rischio alcol) mentre scende un po’ per le femmine (una su dieci).

Obiettivo ubriacatura

Fino a non molto tempo fa, l’Italia era definita Paese dalla «cultura bagnata», mediterranea, fatta di un bicchiere di vino a pasto con frequenza quotidiana, in contrapposizione alla nordica «cultura asciutta», ricreazionale, nella quale gli alcolici si bevono soprattutto nei fine settimana o la sera con gli amici, nei locali, con un maggior livello di intossicazione. Detta in altro modo: i latini bevono per accompagnare ciò che mangiano, gli anglosassoni mangiano per accompagnare ciò che bevono. Questa distinzione di stili ormai ha senso solo per le fasce di età più adulte, ma non corrisponde a ciò che sta succedendo negli ultimi anni in Italia: non si tratta del prevalere di uno o dell’altro comportamento alcolico, ma addirittura della somma dei due. Infatti, al consumo tradizionale mediterraneo si sovrappone la cultura (anti cultura?) della sbornia serale in compagnia, soprattutto nel fine settimana (venerdì, sabato, meno la domenica). Ed ecco le piazze piene fino a notte fonda, le tre ragazzine in coma etilico nel giro di una settimana a Firenze, le dannate stragi del sabato sera. «Il problema è che l’alcol viene usato come sostanza da sballo. Non ci si ubriaca per caso o per imprudenza, ma perché proprio lo si vuole». Quello descritto da Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di sanità e presidente della Società italiana di alcologia, è il fenomeno del binge drinking: tracannare in un’unica occasione cinque o più bevande alcoliche, fino allo stordimento. Tra i bevitori under 24, puntano all’ubriacatura il 64,8 per cento dei maschi e il 34 per cento delle ragazze.

A margine, poi, va annotato: stiamo parlando di alcol, ma il bere «malato» si associa spesso all’uso di altre sostanze psicoattive, dalla cannabis in su. La cosa che più stupisce è la «normalità» percepita di questo comportamento. Se bevo divento più simpatico, ho la battuta pronta, e se anche non fa ridere io non me ne accorgo, e gli altri ridono lo stesso. L’alternativa – niente alcol – fa passare per sfortunati, anche se la parola usata è un’altra, che inizia sempre con le stesse due lettere. L’astemio – che non è l’abitante di Asti… – non se la passa molto bene in gruppo, perché canta fuori dal coro, sceglie laddove sembra non ci sia margine di scelta: per il solo fatto di astenersi mette in discussione un comportamento codificato, accettato, considerato distintivo. A meno che uno non si chiami Dylan Dog, che beve solo tè. Nella biografia ufficiale, sul sito della Sergio Bonelli editore, del famoso personaggio dei fumetti creato da Tiziano Sclavi si legge che «è stato, in passato, un forte bevitore, ma è riuscito a disintossicarsi grazie agli Alcolisti Anonimi, e quando può non perde l’occasione di mettere in guardia contro i pericoli dell’alcol, ben più gravi e diffusi di quelli della droga». Ben detto.

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